3.19.2010

Intervista a Gianluca Polgar



Come ogni pescatore sono fortemente attratto da tutto quello che si muove sotto la superficie dell'acqua(soprattutto se si può pescare :-) ) e naturalmente il modo migliore per portarsi il mondo sommerso dentro le mura di casa è quello di allestire un acquario... ma esistono anche pesci che passano la maggior parte del tempo fuori dall'acqua, arrampicati su un ramo o intenti a scavare profonde buche nel fango della loro vasca: sono i Periophthalmus, dei curiosi esseri che sicuramente a noi pesca-telespettatori amanti di Sampei, saranno più familiari se chiamati col nome di Matsugoro.

Ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell'acquariofilia proprio quando a casa mia è arrivata quasi per caso una di queste sorprendenti creature e se ad oggi il piccoletto gode di ottima forma e cresce rapidamente, lo devo soprattutto alla disponibilità di Gianluca Polgar, dottore di ricerca in Scienze Ecologiche presso l'Università "La Sapienza" di Roma, che attraverso un fitto scambio di mail mi ha guidato dalla A alla Z nella creazione di una vasca adatta ad ospitare il pesce nel miglior modo possibile e mi ha dato tutte le informazioni necessarie per consentrgli un'esistenza tranquilla.

Approfittando ancora una volta della sua disponibilità lo abbiamo intervistato e vi invitiamo a visitare il suo sito e a scoprire il suo lavoro http://www.mudskipper.it/ita/indexIT.html

Parto con la domanda più banale, ma che a dire il vero mi sono posto fin dai nostri primi scambi di e-mail: come nasce la passione per questa particolare famiglia di pesci?

Ho avuto la passione dell’acquario sin da quando avevo sei anni. Da piccolo i pesci tropicali mi affascinavano soprattutto per i loro colori: mi sembrava che attraverso il vetro potessi sfiorare quelle delicate sfumature di luce. Sono sempre cresciuto con la passione per il mondo naturale, e ho sempre avuto la casa piena di animali, con buona pace dei miei (soprattutto di mia nonna): insetti, crostacei, molluschi, anfibi, rettili, uccelli, cani... e naturalmente, pesci. Sono arrivato ad avere fino a 13 vasche fra acquari e terrari, prima di trasferire la mia piccola “serra” in cantina.

La passione per i “saltafango” (una mia libera traduzione di “mudskippers”, o gobidi oxudercini: Gobiidae, Oxudercinae) risale ai tempi dell’università. Quando ho iniziato ad interessarmi a questo gruppo, intorno al 1990-1995, se ne sapeva veramente molto poco. Così ho pensato di cercare di offrire un mio contributo. Quanto al motivo personale, c’è bisogno di spiegare come mai un naturalista fanatico dei pesci s’innamori follemente di un pescetto che esce fuori dall’acqua con una faccia da rana e l’espressione imbronciata di un cartone animato? Quando poi li ho visti per la prima volta sul campo, in Malaysia (1996), il loro fascino mi aveva oramai del tutto soggiogato: mi sentivo come Alice nel Paese delle Meraviglie che cammina fra granchi, cinghiali, lucertole, scimmie e pesci anfibi.

Più avanti con gli anni alla passione si è aggiunto l’interesse scientifico: alcuni gobidi oxudercini sono senza dubbio i pesci viventi con il grado di adattamento più estremo alla vita anfibia; e poiché il gruppo include anche specie con adattamenti intermedi e specie quasi del tutto acquatiche, i saltafango possono raccontarci la storia di quella meravigliosa avventura che è stata la loro transizione ecologica ed evolutiva dall’acqua verso terra. Dal momento che questo è anche uno dei temi più importanti dell’evoluzione biologica dei vertebrati, potrebbero anche insegnarci qualcosa sul nostro stesso trapassato remoto, 360-350 milioni di anni fa.





Guardando il tuo curriculum sul tuo sito leggo che hai fatto molte ricerche sul campo: Papua Nuova Guinea, Australia, Malaysia etc etc... insomma tutti posti dove i comuni mortali sognano di andare per spaparanzarsi al sole su una spiaggia, mentre tu stai con le gambe nel fango a cercare Perio... tra tutti questi viaggi ce n'è uno che ti ha dato maggiori soddisfazioni per il tuo lavoro o del quale hai un ricordo particolare?

Beh, come ho detto la Malaysia è stata il mio primo amore, quello che non si scorda mai. Sono tornato più volte in questo paese, anche perché è la regione geografica con la massima diversità del gruppo per numero di specie. Ma di recente l’esperienza in Papua Nuova Guinea è stata unica nel suo genere. Viaggiare in aerei twin-otters per missionari; perdermi nel delta del Fly River in una barchetta a motore con un solo barile di carburante, con un GPS e un portatile mezzo scarichi e una radio che funzionava una volta si e due no; battere sentieri battuti per generazioni solo da uomini a piedi scalzi; soffrire l’emicrania da disidratazione; accendere il fuoco con i legnetti; rischiare di essere ad ogni passo azzannato da coccodrilli, serpenti, bull-sharks e quant’altro (a parte gli immancabili sciami di zanzare e similari); e soprattutto prendere le prime foto dal vivo di alcune specie quasi ignote alla scienza, mi ha dato la sensazione di essere un esploratore dell’800.

Lo rifarei domani.



A quale progetto ti stai dedicando attualmente?

Mi sto ancora dedicando alla pubblicazione dei dati raccolti durante il mio dottorato di ricerca, che è durato 3 anni con borsa più uno senza borsa, e che ho finito l’anno scorso. Mi sono dottorato con quattro articoli scientifici, ma ne ho ancora parecchi nel cassetto, a parte diverse collaborazioni che ancora continuano, come quella con il museo di storia naturale di Londra, e con vari gruppi in Italia e all’estero. Al momento nel forno c’è la possibilità di andare a lavorare in Malaysia entro quest’anno.

Sono un ecologo evoluzionista, ed essendo anche naturalista la mia ricerca è per vocazione mirata alla descrizione di uno scenario sintetico. Il mio sogno è riuscire a studiare questo gruppo e la sua diversificazione nello spazio e nel tempo, per cercare di capire come mai questi pesci siano diventati quelli che sono, discendendo dai loro antenati acquatici. Mi sono occupato e mi sto occupando dei loro parassiti, della loro distribuzione spaziale a livello di habitat, della loro sistematica e filogenesi, della loro biogeografia e filogeografia, dei rapporti fra le loro forme e la loro ecologia, dei loro adattamenti alla vita semi-terrestre, del loro comportamento, delle relazioni che hanno con i loro predatori e le loro prede. Non uno: mille progetti!


Ma passiamo a qualche domanda sui tuoi pescetti... Per noi acquariofili i Perio sono pesci quasi sconosciuti, ma da quanto so ci sono specie che per molti aspetti lo sono anche per ittiologi, biologi, naturalisti e addetti ai lavori di ogni genere; quali sono i punti ancora "oscuri"?

Se lo studio scientifico della sola specie Homo sapiens offre ancora inimmaginabili prospettive e affascinanti misteri, quali ad esempio quelli sfiorati dai recenti sviluppi della genetica quantitativa o della neurobiologia, è solo perché la studiamo da più tempo di tutte le altre.

Quali sono i punti “oscuri” dei gobidi oxudercini? Si fa sicuramente prima a parlare dei pochissimi punti su cui si è fatta un pochino di luce!


Quante sono le specie censite attualmente nel mondo? E quali le zone in cui sono distribuite?

La sottofamiglia “Oxudercinae” include attualmente 10 generi e 40 specie. I “perio”, termine che si riferisce alle specie dei generi Periophthalmus e Periophthalmodon, includono rispettivamente 18 e 3 specie. La sottofamiglia ha un ampio areale geografico di distribuzione, che va dalle coste dell’Africa occidentale verso est fino alle isole Samoa e Tonga (e forse anche un po’ più in la), attraverso l’intera regione Indo-Pacifica. Gli oxudercini sono distribuiti perlopiù nella fascia tropicale e subtropicale, ma alcune specie si spingono in zone temperate, come in Giappone meridionale e in Australia orientale, dove in inverno vanno in una sorta di “ibernazione”.

Vivono prevalentemente in aree intertidali, che cioè vengono periodicamente sommerse dalle maree, anche se alcune specie si spingono persino nelle paludi d’acqua dolce. Nel Mediterraneo i loro antenati erano probabilmente presenti… diversi milioni di anni or sono. Con l’attuale tropicalizzazione del mare nostrum non è però escluso che ce li ritroviamo ad entrare da Gibilterra o da Suez! Per esempio, Periophthalmus barbarus si trova già in Marocco, mentre P. argentilineatus è presente nel Mar Rosso.

La maggior parte degli oxudercini è nota alla scienza solo per la loro posizione sistematica (la loro classificazione animale ed il grado di parentela con le altre specie, ancora oggetto di diversi studi scientifici), e per pochissimi resoconti descrittivi o aneddotici. Di alcune specie sono noti solo pochissimi esemplari di museo (per es. Pseudapocryptes borneensis, Scartelaos gigas, o Zappa confluentus)

Fra le specie con più spinti adattamenti alla vita anfibia (i “saltafango” s.s.), come quelle incluse nei generi Periophthalmus, Periophthalmodon, Boleophthalmus, Scartelaos e Pseudapocryptes, alcune sono state studiate abbastanza estesamente per certe problematiche (ancora scientificamente assai produttive) relative alla fisiologia della respirazione, escrezione ed osmoregolazione, per la loro anatomia comparata ed istologia, e in pochi casi anche per il comportamento. Lo studio dell’ecologia di questo gruppo è ancora agli albori, anche per le straordinarie difficoltà operative che offrono gli ambienti in cui si trovano (foreste intertidali a mangrovie e piane tidali fangose)

In effetti, una caratteristica tipica dei saltafango è la loro estrema popolarità (basti pensare al recente spot della birra Guinness, o i vari documentari tipo il recente “Genesis”), e al contempo la quasi totale ignoranza della loro biologia.



foto by R. Cui, Guandong, Cina, 2006


La prima volta che ho visto un perio ho pensato subito al mio libro di storia delle elementari col racconto del pesce che esce dall'acqua "ferma" per colonizzare la terra emersa divenuta in grado di offrire le necessarie condizioni alla vita. Ma qual è la ragione per cui questi pesci hanno sviluppato la capacità di passare tutto quel tempo fuori dall'acqua?

La classica domanda da un milione di dollari! Come ho accennato, è proprio questo l’oggetto del mio studio. Ci sono diverse ipotesi che si possono formulare per cercare di spiegare come mai una linea evolutiva di pesci trovi vantaggioso, in certe condizioni, spostarsi in acque sempre più basse di generazione in generazione, fino a sviluppare comportamenti anfibi. In realtà, dal momento che tutti i vertebrati terrestri (o tetrapodi) non sono che “pesci fuori dall’acqua”, questa è la domanda chiave per capire come mai non ce ne stiamo ancora tutti a mollo, tu ed io compresi.

Come dicevo, gli antenati di tutti i vertebrati terrestri viventi, i “prototetrapodi”, hanno affrontato le prime fasi di questa transizione evolutiva circa 360 milioni di anni fa, nel tardo Devoniano.L’ipotesi attualmente più condivisa è che due processi adattativi ed ecologici abbiano maggiormente contribuito a creare le condizioni adatte per favorire questa transizione: uno che ha “attirato i pesci verso terra”, e un altro che li ha “spinti fuori dall’acqua”. Il primo avrebbe offerto l’opportunità di accedere a nuove risorse (in quel periodo gli artropodi avevano già colonizzato le terre emerse ed alcuni costituivano eccellenti prede potenziali); il secondo quella di sfuggire all’elevato livello di competizione allora presente nell’ambiente acquatico: non per nulla il Devoniano viene chiamato “l’era dei pesci”.

Il modello della “pozza che si asciuga” di A.S. Romer, cui fai riferimento parlando dell’ “acqua ferma” dei tuoi ricordi scolastici, è ormai del tutto superato. Recenti studi indicano che le condizioni in cui la transizione devoniana ha avuto luogo furono sorprendentemente simili a quelle in cui oggi vivono i saltafango. Inoltre, questi ultimi sono soggetti a dinamiche ecologiche simili ai due processi adattativi ed ecologici di cui sopra.


Eccoci ad un punto che sicuramente interesserà particolarmente i lettori di questo sito...la pesca.
Il mitico Sampei li pescava con una tecnica che veniva detta "Matsukake" (o qualcosa di simile) che consisteva in una sorta di pesca a strappo. Esiste una pesca non professionale nelle zone in cui vivono?

Esistono diverse tecniche per catturare i saltafango: in effetti (come spiega bene Sampei, le cui preziose puntate in DVD ho trovato su E-Bay) non sono pesci proprio “facili da pescare”. Qualcuno un giorno disse che “bisognerebbe fare una ricerca di dottorato solo per capire come riuscire a prenderli”. La cosa non è affare di poco, e ha scoraggiato e ancora oggi scoraggia molti ricercatori che vorrebbero studiare questi animali.
Tuttavia, in tutte le culture che si ritrovano i saltafango sotto casa, i pescatori locali ne hanno in genere una buona conoscenza. In Papua Nuova Guinea per esempio ho trovato una corrispondenza quasi perfetta fra l’attuale classificazione scientifica e i nomi comuni in uso presso i villaggi che ho visitato. Ovviamente per catturare specie diverse vanno utilizzate tecniche diverse… non dimentichiamo che stiamo parlando di 40 specie incluse in 10 generi. E dunque, come tutti i pescatori sanno bene, “paese che vai…”

In Gambia, ad esempio, catturano Periophthalmus barbarus con delle trappole a caduta: delle sezioni di grossi bambù sotterrati nel fango e coperti con una foglia. Anche in Giappone (a parte il mitico mustukake così accuratamente descritto da Sampei) catturano Boleophthalmus pectinirostris (o “mutsugoro”) con un attrezzo molto simile, anche se credo che in questo caso sfruttino la tendenza di questa specie ad esplorare potenziali tane abbandonate, infilandosi in qualsiasi buco incontrino durante la bassa marea. In Nigeria catturano P. barbarus con una sorta di nassa di legno con un’esca all’interno.

In Viet Nam meridionale catturano Pseudapocryptes elongatus con una trappola di bambù che ha una piccola apertura su un lato. Dal momento che le tane hanno in genere due entrate, il pescatore ne tappa una con un piede, ed appoggia l'apertura della trappola sull'altra. Il pesce, spaventato dal piede, esce "dall'uscita di sicurezza" e va a finire nella trappola.

In Papua Nuova Guinea catturano i grossi B. caeruleomaculatus con le mani, infilandosi con tutto il braccio nelle profonde tane. In Malaysia catturano perioftalmi e boleoftalmi avvicinandoli lentamente e poi “frustandoli” con un bastone molto sottile, oppure con le reti da lancio, scagliate dalla barca sul bagnasciuga. Una volta in Malaysia ho visto uno “zingaro del mare” (Orang Laut) catturare un boleoftalmo schizzandolo continuamente con acqua e fango da una distanza di 2-3 m e pian piano avvicinandosi avanzando nel fango fino alla cintola, fino a catturarlo con uno scatto con l’altra mano: una sorta di magia. In Australia, in acqua dolce, una ricercatrice ha di recente catturato diverse decine di esemplari di P. weberi con l’electrofishing.

In diversi paesi alcune specie vengono attivamente commerciate per il consumo alimentare: in India (Tamil Nadu) Apocryptes bato e Boleophthalmus spp. sono un importante fonte di cibo durante i monsoni, mentre in Cina, Tailandia, Vietnam e Giappone Boleophthalmus e Pseudapocryptes spp. vengono allevati a scopo alimentare (posso testimoniare che Pseudapocryptes elongatus arrosto è veramente squisito). Nello Yemen (nonostante un divieto alimentare coranico), ma anche in Cina e in Papua Nuova Guinea alcune specie vengono consumate perché si ritiene che abbiano proprietà curative o afrodisiache.


© Ariake lawsuit, 2007



photo by Hiro Masa Matsumoto, 1999





Tu hai mai pescato i Perio? Se si sarebbe molto interessante che ci raccontassi come.

Per le mie ricerche ho dovuto catturare migliaia di saltafango e sono diventato abbastanza abile. Molti li ho dovuti sacrificare (ed alcuni sono ora in diversi musei), ma in diversi casi ho potuto rilasciarli dopo aver preso piccoli campioni o delle misure, in alcuni casi in anestesia. Sono anche uno dei pochi ricercatori che cammina nel fango semiliquido delle piane tidali: la tecnica che ho affinato mi permette di campionare facendo a meno di strumenti come le slitte da fango malesi (donka) o quelle specie di curiosi “monopattini da fango” che usano ad Hong Kong.

Ho ovviamente usato metodi di cattura diversi per specie diverse: per es. in Australia e Malaysia gli esemplari più grandi di boleoftalmi li ho catturati in tana usando la tecnica dei pescatori della Papua Nuova Guinea: infilandovi il braccio e andandoli a cercare a tentoni nelle varie camere. Certo c’è il rischio di imbattersi in un grosso granchio o in un serpente. Per gli esemplari più grandi delle specie carnivore ho usato anche la canna da pesca, ma sono riuscito ad avvicinarli abbastanza da usarla solo nelle vicinanze di abitazioni o pontili, dove i pesci sono abituati alla presenza umana. I piccoli perioftalmi sono più facili da catturare, sempre che si riesca a scorgerli al suolo nella penombra della foresta: bastano un retino a mano, molta concentrazione, pazienza e preferibilmente uno o due aiutanti, visto che possono fare diversi salti consecutivi di oltre un metro ciascuno. In Iran, per motivi a me ignoti, tutte e tre le specie endemiche persiane si riescono a catturare con le sole mani, perché quando si rifugiano in tana rimangono immediatamente dietro all’apertura principale, consentendo così di raccoglierle facilmente all’interno di una manciata di fango. Altre specie (per es. Oxuderces spp.) s’infossano nel fango semiliquido: l’unica possibilità in tal caso è osservare il punto in cui scompaiono e rimestare nel fango con le mani, anche se può essere pericoloso, per via dei velenosi pesci-pietra (Synanceia spp.). Altre specie, come P. chrysospilos, migrano con la marea e le ho catturate con una rete a barriera. Altre ancora le ho pescate durante l’alta marea con piccole reti a strascico (per es. Parapocryptes serperaster, ovviamente solo a scopo di ricerca), oppure ancora retinando alla cieca nell’acqua torbida delle pozze o dei canali tidali (Pseudapocryptes elongatus). Con la rete da lancio mi sono esercitato per ore, ma non ho mai preso nulla.


Esistono pericoli dovuti alla pesca intensiva o che derivano dal degrado ambientale per alcune specie di perioftalmi? Quali sono le zone dove questi pesci rischiano di più?

Riguardo alla pesca o ad altre forme di prelievo, tranne forse alcuni casi particolari, direi che pericolo non ce n’è. Nessuna delle specie è in lista rossa IUCN. D’altro canto non si sa molto della loro situazione a livello di conservazione biologica. Dal momento che il pericolo maggiore viene dalla distruzione del loro habitat, la pesca potrebbe in alcuni casi dare il colpo di grazia a situazioni già estreme.

In Malaysia peninsulare occidentale, per esempio, da oltre 50 anni è in corso una graduale bonifica delle paludi di acqua dolce e poi delle foreste a mangrovie, spostandosi gradualmente verso il mare. La pratica consiste nel costruire terrapieni e canali d’acqua dolce per chiudere l’accesso delle maree verso l’entroterra e quindi bonificare l’area per coltivare. Lungo tutta la costa credo che oggi non esista più un ettaro di ecosistema di transizione fra le foreste a mangrovie “alte” (le cosiddette backforests) e le paludi d’acqua dolce. La progressiva distruzione da terra di queste foreste causa l’estinzione locale delle comunità animali e vegetali che vivono ai livelli topografici più elevati, e che nel caso dei saltafango sono quelle scientificamente più interessanti, in quanto meglio adattate alla vita anfibia. Per esempio, proprio in Malaysia peninsulare, Periophthalmodon septemradiatus (una delle specie più frequentemente importate in Italia dal Viet Nam per il mercato acquaristico) è stato trovato solo nel 2003, nei canali di irrigazione di un piccolo villaggio. E’ probabile che prima delle bonifiche fosse una specie comune nelle backforests malesi, ora pressoché del tutto scomparse.

Ma la Malaysia non è certo l’unico esempio di degrado ambientale, e nemmeno il più estremo. In certe zone dell’Indonesia, in Tailandia, nelle Filippine, in Viet Nam e in Cina, il recente boom delle mazzancolle tropicali (il cosiddetto “tiger prawn” che arriva nei nostri ristoranti) ha causato una distruzione catastrofica dei mangrovieti, che vengono abbattuti per costruire gli allevamenti (o fattorie), estensivi ed intensivi. Il tasso annuo di perdita di copertura vegetale in alcune regioni supera l’8% (quello medio delle foreste equatoriali amazzoniche si aggira attorno al 2%).

In Nigeria, le multinazionali del petrolio come Shell e l’italiana Agip stanno devastando il delta del Niger con continui rilasci di greggio nell’ambiente, con conseguenze difficilmente immaginabili per le locali comunità umane e naturali.

Tuttavia, il pericolo maggiore non è l’inquinamento, ma la pura e semplice distruzione. Gli ecosistemi a mangrovie negli anni ’60 coprivano circa il 75% delle coste tropicali. In pochi anni abbiamo perso quasi un terzo della copertura vegetale globale. Da parte mia, sto cercando di “sponsorizzare” i saltafango come “specie bandiera” per propagandare la gestione sostenibile di questi ecosistemi, unici nel loro genere.




Dal punto di vista dell'acquariofilia sono senza dubbio animali interessantissimi. Immagino che tu avrai allevato molti esemplari di numerose specie diverse, consiglieresti l'allevamento ad un acquariofilo dilettante?

Per la verità ho allevato molte specie solo per ricerca, per periodi inferiori a qualche settimana (generi Periophthalmus, Periophthalmodon, Pseudapocryptes, Oxuderces, Boleophthalmus, Zappa): sono poche quelle che ho allevato più a lungo (Periophthalmus gracilis, P. variabilis e Periophthalmodon septemradiatus). I pesci che ho ospitato per più tempo sono stati tre esemplari di P. variabilis, che ho tenuto in acquario per sei anni. Oggi preferisco tenere gli animali in cattività solo per motivi di ricerca e non ho più vasche per motivi amatoriali.

No, non consiglierei l’allevamento ad un acquariofilo dilettante, per un semplice motivo: i perioftalmi e i perioftalmodonti, di gran lunga le specie più frequentemente importate, sono pesci estremamente resistenti, che quindi, come ad es. capita regolarmente con il classico pesce rosso (Carassius auratus), possono essere torturati per mesi prima di morire alla fine di una lenta agonia.

Consiglio l’allevamento di queste specie con molta moderazione (considerando anche la pressione antropica cui sono soggetti gli ambienti in cui vivono), e solo a chi veramente si appassioni alla loro biologia e sia disposto a rimboccarsi le maniche per documentarsi adeguatamente ed offrire loro il meglio. Riprodurre condizioni adeguate al loro allevamento non è cosa da tutti (come hai potuto constatare di persona) e occorre porre estrema attenzione alle loro peculiari esigenze.

In particolare, si tratta invariabilmente di specie spiccatamente territoriali, perciò vasche di dimensioni “normali” (minore di 300 l) possono contenere stabilmente più esemplari (s'intende "per anni") solo se appartengono a specie di dimensioni modeste (minore di 8 cm di lunghezza totale massima registrata)

Nelle tue numerose pubblicazioni sulla specie hai mai scritto qualche guida utile a chi volesse dedicarsi al loro allevamento?

Ho di recente scritto un articoletto su una rivista divulgativa, “The Coscientious Aquarist”:
http://www.wetwebmedia.com/ca/volume_7/volume_7_1/mudskippers.html

Potrebbe essere il primo di una piccola serie con alcune dritte per chi voglia provare ad allevare un perioftalmo. Ho in progetto un libro sulla sottofamiglia (Nova Science Publishers), che sebbene sia una review scientifica, credo includerà una sezione sull’allevamento in acquario, ma non so se uscirà prima della fine dell’anno. Per il resto c’è il mio sito web!


So che la riproduzione in cattività è molto difficile, se non impossibile, quindi c'è da pensare che tutti i perio in vendita nei negozi siano esemplari di cattura. Secondo te questo mette a rischio alcune specie? Ad esempio i P. barbarus e i P. novemradiatus, che sono poi le specie che si possono trovare con più frequenza nei negozi del settore.

Sono a conoscenza di una deposizione e schiusa di P. modestus in un acquario pubblico in Giappone, nel 2004 (i pesci erano stati catturati da una piana fangosa li vicino); tuttavia, che io sappia non ne esiste documentazione scientifica. La vasca era grande come un piccolo bagno domestico (da una foto ho visto che per farne la manutenzione entravano due persone con una scala a soffietto), aveva uno strato di fango di almeno mezzo metro, e permetteva la riproduzione delle maree. Alcuni articoli scientifici degli anni ’60, sempre di un giapponese, e ahimè in lingua giapponese, credo parlino della riproduzione in laboratorio di alcune specie, come Apocryptodon punctatus. Questo è quanto per quanto riguarda la riproduzione in acquario.

Un'altro mio progetto, purtroppo attualmente in stallo a causa della mancanza di fondi, consiste proprio nella riproduzione di una specie in laboratorio. In generale non sembra un’impresa da poco, anche se ho un paio di idee in mente. Sono anche in contatto con un amico che ci sta provando in Germania da alcuni anni.

Tutti gli esemplari in vendita sono di cattura. E’ chiaro che l’impatto sulle popolazioni di origine dipende da caso in caso. Per esempio, c’è stato di recente un piccolo boom di importazioni di P. novemradiatus dall’India sul mercato americano (la specie cui fai riferimento tu probabilmente non è il vero P. novemradiatus, ma P. variabilis, importato in Italia da Singapore o dalla Tailandia). Da dove vengono questi pesci? Spesso un aumento delle importazioni di questo tipo è legato allo sfruttamento di una certa area (per es., la costruzione di una fattoria di gamberi), ed è perciò possibile che alla lunga contribuisca a depauperare la locale popolazione di pesci.
Rifornirsi da distributori che importano queste specie solo occasionalmente o solo su richiesta potrebbe essere un modo per evitare di alimentare lo sfruttamento continuativo ed intenso di una particolare popolazione. Per fortuna il mercato acquaristico non fa ancora grande richiesta di queste specie, che rimangono in gran parte pesci ornamentali “di nicchia”, ma spero che qualcuno scopra presto come riprodurli in cattività, nella direzione di un’aquariofilia più consapevole ed eco-sostenibile.

In ogni caso, a chiunque capiti in una foresta a mangrovie o in una piana di fango tropicale nella regione indo-pacifica o in Africa occidentale, anche solo come turista di passaggio in un parco naturale o presso un pontile, consiglio di dotarsi di un binocolo, puntarlo sul suolo durante la bassa marea, e di darsi ad un entusiasmante mud-watching.


Bene Gianluca, penso che anche per questa volta ti ho stressato abbastanza con le mie domande.

Ringraziandoti ancora per la collaborazione e per le belle foto che mi hai permesso di "rubare" dal tuo sito, invito nuovamente i lettori a visitare il tuo spazio web e a scoprire i tesori che il fango nasconde.

MUD SKIPPER



foto di Yuko Ikebe

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